Chi è Al Qaeda?

per restare in tema di 11 settembre, per fortuna che non ne volevo parlare...


Le radici della generazione di al-Qaeda
21/05/2008

Al centro dell’incomprensione che alimenta le tensioni fra il mondo islamico da un lato e gli Stati Uniti e l’Europa dall’altro, vi è l’erronea concezione occidentale secondo la quale la tendenza politica ed intellettuale portata avanti dal cosiddetto ‘fenomeno islamista’ sia necessariamente un impedimento alla modernizzazione.

La condanna di ogni forma di ‘islamismo’ – una significativa componente politica in tutto il mondo islamico – spesso deriva dalla percezione semplicistica che la maggioranza dell’opinione pubblica in Occidente ha del movimento ‘islamista’.

La recente comparsa della generazione legata ad al-Qaeda ha ulteriormente rafforzato questa concezione erronea, creando nuove barriere alla comprensione ed all’interazione con questo fenomeno, che è molto più diversificato e diffuso di quanto molti, in Occidente, immaginano.

La creazione di termini e concetti identitari è il principale denominatore comune che può essere efficacemente applicato a tutte le espressioni del fenomeno ‘islamista’. La loro stessa esistenza dimostra l’efficacia, la capacità di mobilitazione sociale e la varietà politica degli attori che fanno capo al cosiddetto ‘Islam politico’. Si tratta di qualità che hanno permesso al fenomeno islamista di guadagnare terreno in misura molto maggiore rispetto alle precedenti ideologie, compreso il nazionalismo arabo.

Gli ‘islamisti’ utilizzano termini dell’identità occidentale adattandoli alla propria agenda politica. Ad esempio, essi applicano le nozioni occidentali di modernizzazione ai loro contesti locali, cosicché la ‘modernità’ non è automaticamente associata all’occidentalizzazione. L’Occidente, a sua volta, trova irrazionale questo uso localizzato dei propri simboli.

Ma la reazione dell’Occidente è di per sé irrazionale, poiché ritiene che queste politiche, definite ‘islamiste’, mettano in questione il suo monopolio della definizione di ‘modernità’, e non comprende l’impatto che la creazione di una modernità universale potrebbe avere.

L’ipotesi relativa ai criteri identitari del risorgente ‘islamismo’ autorizza una prima importante conclusione metodologica: un movimento identitario per sua natura va oltre i limiti dei diversi gruppi sociali. Una sua analisi non può essere fatta efficacemente utilizzando soltanto gli strumenti della sociologia classica, che si limita ai parametri socio-economici.

Gli islamisti non sono, in effetti, né poveri o sottoimpiegati né ricchi, non sono giovani o vecchi, non sono intellettuali borghesi, civili o militari, uomini o donne. Sono tutte queste categorie allo stesso tempo, come lo furono, storicamente, i protagonisti di altri movimenti che adottarono una forma di resistenza identitaria, nazionalista o antimperialista, contro una forza dominante.

E’ necessario fare attenzione a non estrapolare semplicemente il potenziale ‘denominatore comune’ dell’identità come unica base di analisi, e ristabilire invece la diversità e complessità dei parametri della sociologia e dell’economia politica.

Una volta stabilita l’identificazione culturale islamica, il secondo livello di analisi consiste nel determinare perché un segmento (e solo uno) della passata generazione ha optato per una lettura islamista radicale ed una manifestazione militante di questa appartenenza.

Sappiamo che questa radicalizzazione ebbe luogo, da un lato contro le elite al potere nel mondo musulmano, a dall’altro contro l’Occidente in generale, e gli Stati Uniti ed Israele in particolare. Sappiamo anche che questa radicalizzazione è sia tattica che ideologica. Sul piano tattico, la generazione di al-Qaeda sostiene l’uso della lotta armata al di sopra di tutte le altre modalità di azione politica, che sono state completamente screditate agli occhi dei suoi membri.

Sul piano ideologico, essa fa assegnamento su una rigida esclusività. Questo gruppo è giunto a definire i ‘musulmani’ in maniera così ristretta e selettiva che la categoria dei ‘non credenti’ è venuta a includere non solo i cristiani e gli ebrei, ma anche la cosiddetta elite ‘laica’ al potere nel mondo islamico.

Ma non basta. Il marchio di ‘non credente’ è stato applicato anche ad altri musulmani che si opponevano alle stesse elite (inclusi i Fratelli Musulmani, che sono definiti da al-Qaeda ‘opportunisti politici’). Essi sono accusati di accettare i principi democratici – una concessione che conferisce il primato ad una legge ‘umana’ rispetto alla rivelazione ‘divina’.

Infine, sia la tattica che l’ideologia di al-Qaeda sono state ‘deterritorializzate’, visto che la sua lotta è divenuta sempre più una lotta globalizzata.

I militanti di al-Qaeda non possono essere considerati l’unica forma di espressione ‘islamista’. Oltretutto, le differenze politiche e ideologiche sono insite nella varietà dei movimenti islamici. Per eliminare la specificità di al-Qaeda, essa dovrebbe essere inserita nel panorama comprendente gli altri attori del fenomeno islamista contemporaneo, includendo altre espressioni dell’attuale fenomeno dell’islamismo risorgente.

E’ inutile dire che le divisioni fra questi gruppi sono instabili e ‘permeabili’ a causa dei continui sviluppi e delle trasformazioni, che sono complesse e contraddittorie.

Il movimento fondatore dell’islamismo, quello dei Fratelli Musulmani, sebbene censurato da al-Qaeda, continua a rappresentare tuttora una vasta maggioranza all’interno della sfera islamista. I salafiti, dal canto loro, sembrano voler evitare la modernizzazione politica adottata molto tempo fa dai Fratelli Musulmani. Negli ultimi anni, è importante notare la considerevole rinascita delle tendenze moderniste sufi, che sono state maggiormente coinvolte non solo in ambito sociale ed educativo, ma anche in ambito politico.

Il fenomeno islamista è stato a lungo percepito come radicalmente antagonista alle qualità ‘mistiche’, ‘apolitiche’ e ‘moderate’ che sono legate al sufismo agli occhi di tutti coloro – regimi o osservatori occidentali – che cercano in terra islamica una alternativa legittima alla sfida islamista.

Sotto molti punti di vista, questo confine dovrebbe essere oggi visto in maniera più sfumata; nuovi ponti possono essere gettati tra queste due forme di mobilitazione, che non sono mai state completamente inconciliabili.

Al-Qaeda: la terza generazione di islamisti
All’interno del dominio islamista, al-Qaeda è posizionata nel periodo più recente, che a sua volta è suddiviso in tre ‘generazioni’.

La prima generazione dell’islamismo moderno emerse sotto forma di resistenza alla presenza coloniale. Questa resistenza ‘islamica’ si espresse dapprima nell’ambito intellettuale, sotto forma di reazione a ‘riformisti’ come Jamal al-Din al-Afghani, Muhammad Rashid Rida e Muhammad Abduh, e poi, dopo il 1928, nell’ambito politico con Hassan al-Banna ed i Fratelli Musulmani.

Sebbene questa generazione riuscì a sposare i riferimenti islamici con il discorso nazionalista, essa non riuscì, in Egitto, Tunisia e Algeria, a centrare l’obiettivo di giungere al potere.

La seconda generazione reagì alle realtà del periodo post-coloniale, e fu il risultato delle politiche culturali degli islamisti nei confronti delle elite nazionaliste che erano giunte al potere dopo l’indipendenza. Il lessico islamico venne dapprima utilizzato per denunciare quella che gli islamisti percepivano come l’ ‘eredità culturale’ dell’era coloniale, e poi contro il crescente autoritarismo delle elite nazionaliste.

Questa generazione islamista accusò le elite post-coloniali di non essere riuscite a determinare una rottura culturale e simbolica con l’universo coloniale. In altre parole, essi rinfacciarono alle elite al potere la loro incapacità di portare a compimento la ‘dissociazione’ dalle potenze straniere dominanti ristabilendo il primato del sistema simbolico ‘islamico’ locale.

La retorica islamista si è in qualche modo estesa all’ambito culturale includendo il ‘vecchio’ processo nazionalista di ‘dissociazione’ dai colonizzatori che portò all’indipendenza politica, e successivamente alle politiche di ‘nazionalizzazione’ (del petrolio, del canale di Suez, e così via) in ambito economico, attraverso l’impiego del pensiero marxista occidentale.

La seconda forma di risentimento, che emerse lentamente, fu diretta contro gli autocrati, che spesso usufruirono della tolleranza e del complice supporto politico delle ex potenze coloniali, le cui incursioni nelle dinamiche interne dello stato divennero sempre più scontate.

Inoltre, i nazionalisti arabi, che avevano condotto la battaglia per l’indipendenza, furono accusati non solo di prolungare i termini della dominazione culturale, ma, progressivamente, di appoggiare una nuova ‘dipendenza’ economica, politica e militare nei confronti delle ex potenze coloniali e, successivamente, della superpotenza americana a cui esse avevano ceduto il passo.

Nel corso degli anni ’90, la terza generazione di islamisti, nella forma di al-Qaeda, emerse dalla vasta nebulosa islamista.

Questa ‘potenza in ascesa’ sembrò essere il risultato della confluenza di tre fattori: l’offensiva dell’interventismo e dell’unilateralismo del Primo Mondo a seguito del collasso dell’URSS; l’inasprirsi del problema del dispotismo arabo (il ‘nemico vicino’ secondo Ayman al-Zawahiri, il numero due di al-Qaeda), affiancato dai suoi promotori e profittatori stranieri (il ‘nemico lontano’), vale a dire gli Stati Uniti; e la capitalizzazione, da parte dei jihadisti, della loro partecipazione alla resistenza contro l’occupazione sovietica in Afghanistan, da un lato, e della supposta impotenza ed inefficacia dei loro concorrenti ‘legalisti’, come i Fratelli Musulmani, dall’altro.

Le radici e il futuro della radicalizzazione
Il panorama politico globale in via di trasformazione creò anch’esso un nuovo ambiente ideologico ed operativo per questa nuova generazione di islamisti. Nei primi anni ’90, subito dopo la guerra del Golfo e il crollo dell’Unione Sovietica, le dinamiche della dominazione post-coloniale determinarono progressivamente la creazione di un nuovo ordine ‘imperiale’, dominato questa volta dagli Stati Uniti. L’interventismo americano, in assenza delle divisioni geopolitiche del mondo bipolare della Guerra Fredda, ebbe poche limitazioni.

Gli Stati Uniti cominciarono a giocare un ruolo attivo nella costruzione di un nuovo ordine mondiale a livello economico, politico e culturale. La fondazione ideologica di questo nuovo ‘destino manifesto’ dell’America, si tradusse in un progetto che tentò di imporre in maniera unilaterale le norme americane religiose e laiche al resto del mondo.

Tuttavia, la tendenza all’unilateralismo è soltanto servita a delegittimare ed a screditare questo programma e, assieme ad esso, il ruolo dell’America come potenza mondiale dominante.

L’uso sconsiderato della forza militare incise nella stessa misura del vuoto ideologico che caratterizzò i principi di questo nuovo ordine internazionale. L’hard power utilizzato per la ‘guerra di liberazione del Kuwait’, portò all’insediamento di una presenza militare americana diretta in diversi paesi della penisola araba.

Questa semi-occupazione rappresentò un’offesa basilare per la mentalità guerriera di Osama bin Laden e dei suoi seguaci. Per di più, le ripercussioni negative delle sofferenze irachene sotto l’embargo dell’ONU, ed il rapido deterioramento della situazione palestinese nell’era successiva agli accordi di Oslo, rivelarono gli ovvi limiti della politica estera americana nella regione, e contribuirono pesantemente alla perdita di credibilità del ‘Nuovo Ordine Mondiale’.

Quest’ultimo si è rivelato semplicemente come un modo per continuare ad assicurare la superiorità militare e gli interessi economici degli Stati Uniti, e per continuare a garantire l’appoggio ai suoi alleati (vale a dire, ad Israele).

Il primo dei due principali errori politici commessi dai promotori di questo nuovo ordine mondiale consistette senza dubbio nel sottovalutare il livello di delegittimazione dei regimi autoritari sui quali essi fecero assegnamento.

Sulla scia della crisi e delle incomprensioni con l’Iran, sorte a partire dal 1979, il secondo errore fu quello di criminalizzare, indiscriminatamente, l’intera generazione degli islamisti, il principale serbatoio dell’opposizione a questi regimi, semplicemente perché l’islamismo fu proclamato come il suo principale punto di riferimento, e non venne fatto alcuno sforzo per scoprire la realtà del suo programma politico.

Nell’immaginario di un’intera generazione di musulmani e, ovviamente, in quella della potente corrente islamista nel suo complesso, i fattori esogeni delle crisi politiche interne (il ‘nemico lontano’ di al-Zawahiri) saranno di conseguenza sistematicamente associati a questa accresciuta visibilità della leadership americana nell’ordine internazionale, nell’ordine regionale (arabo-israeliano), e nel contesto arabo interno in particolare.

Nell’arena islamista, l’internazionalizzazione e la deterritorializzazione della lotta armata ebbero inizio nello stesso momento: è a partire da questa arena che il sistema della globalizzazione – contraddistinto sia dalla dominazione americana che dalla totale libertà, concessa all’erede russo dell’Unione Sovietica, di condurre guerre coloniali per conservare i residui del suo impero – sviluppa, in maniera assolutamente non sorprendente, i semi di una forma di ‘globalizzazione della resistenza armata’.

Laddove gli affari petroliferi e la sicurezza di Israele sono preminenti, la dominazione occidentale è particolarmente intensa. Inoltre, il dispotismo arabo inibisce completamente i mezzi di lotta legali. Di per sé, il rafforzamento dei regimi arabi favorirà la retorica rivoluzionaria di bin Laden.

L’inserimento di diverse migliaia di giovani militanti nella resistenza afghana contro l’occupazione sovietica è il terzo fattore che un analista della generazione di al-Qaeda deve prendere attentamente in considerazione. L’episodio afghano viene costruito secondo fasi logiche successive, fra loro differenti.

La prima fase fu quella della mobilitazione ‘legale’ e semi-ufficiale (dal punto di vista dei governi arabi ed occidentali, i quali incoraggiarono con forza questa azione) di giovani sostenitori della resistenza armata contro l’occupazione sovietica dell’Afghanistan nei primi anni ’80 del secolo scorso.

La fine del percorso ‘legittimo’ degli ‘arabi afghani’, che provenivano dall’intero mondo islamico, cominciò con la vittoria dei mujahidin contro il regime di Kabul, e con il ritiro delle truppe sovietiche.

La fase che seguì fu una guerra civile tra le fazioni mujahidin vittoriose che dilagarono dopo il 1992, spesso a spese degli arabi che avevano sacrificato le loro vite. La maggioranza dei mujahidin arabi si ritirò dal suo ex santuario afghano. Ma, essi furono ricambiati con la repressione dei regimi arabi che si erano stancati dei combattenti che avevano sconsideratamente addestrato e dispiegato in passato nel nome del ‘jihad’.

Tuttavia, l’ascesa al potere dei Talebani nel 1996 cambiò immediatamente il panorama geopolitico della regione.

Venne raggiunto un accordo fra Osama bin Laden e il nuovo regime di Kabul, con l’appoggio di Ayman al-Zawahiri. Il leader ‘talebano’ egiziano decise di rivolgere la sua vecchia ed infruttuosa lotta, contro il ‘nemico vicino’ rappresentato dallo stato egiziano, in direzione di un nuovo nemico – gli Stati Uniti. Sebbene il nuovo nemico fosse ‘lontano’, egli fu in grado di riunire un numero esponenzialmente crescente di persone scontente.

Fu quest’ultima fase che diede il segnale per il ‘legittimo’ dispiegamento (dal punto di vista del regime afghano che li ospitava) della rete globale di al-Qaeda.

L’episodio della guerra afghana diede l’opportunità, a migliaia di giovani musulmani di tutte le nazionalità, di prendere parte ad una lotta armata vittoriosa contro l’Unione Sovietica, la seconda superpotenza mondiale dell’epoca. Questo fatto ovviamente giocò un ruolo estremamente significativo – come d’altra parte accadde, in certa misura, anche con la guerra nei Balcani e, soprattutto, con la guerra in Cecenia – nella nascita e nell’affermazione della generazione di al-Qaeda.

Svolgendo un ruolo che andò ben al di là della fornitura di semplice assistenza militare, l’Afghanistan facilitò la formazione dell’ultima generazione islamista fornendo ai mujahidin arabi un loro santuario ed un terreno di coltura per promuovere le loro idee.

Questa assistenza ha accelerato l’ascesa dell’ideologia radicale ed ha accresciuto la forza delle sue strategie. Ciò diede credito – a spese di altre strategie dell’islamismo contemporaneo – all’efficacia, o semplicemente alla praticabilità, della lotta armata contro un pilastro dell’ordine mondiale.

In effetti, l’offensiva del ‘fronte del rifiuto’, composto da una minoranza salafita che sosteneva l’azione militare, fu promossa come una strategia di successo, soprattutto perché i precedenti tentativi di cambiamento erano falliti.

Come esempi a questo proposito, possiamo citare l’infruttuosa lotta all’interno dello spazio ‘nazionale’ – soprattutto in Egitto e in Algeria – e l’assenza di sbocchi per le strategie pacifiche e legaliste adottate da movimenti islamisti concorrenti, in particolare i Fratelli Musulmani.

Infine, per comprendere l’identità salafita della generazione di al-Qaeda in Afghanistan, dobbiamo prendere in considerazione la natura particolarmente conservatrice della società afghana e la vicinanza geografica dei Talebani alla leadership di al-Qaeda.

Questi jihadisti salafiti oggi rappresentano la famosa ‘base’ (il significato della parola ‘al-Qaeda’) che costituisce la maggiore minaccia a questo nuovo e mal funzionante ordine mondiale, emerso dalle macerie del muro di Berlino il 9 novembre 1989.

Noureddine Jebnoun è professore associato presso il Centro di Studi Arabi Contemporanei della Georgetown University

Titolo originale:

Identity of the al-Qaida generation


fonte: http://www.arabnews.it/2008/06/11/le-radici-della-generazione-di-al-qaeda/

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